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Offese in chat: diffamazione o ingiuria?

Cassazione penale sez. V, sentenze 25/02/2020, n. 10905 e 20/02/2019, n. 7904

La diffusione dell’utilizzo di software di messaggistica istantanea o di Voip (ossia i programmi che permettono di effettuare telefonate o videochiamate tramite connessione internet), ha portato a un incremento di pronunce della giustizia sul un tema delle offese recate con tali mezzi.

L’ambito di questo scritto è circoscritto ai casi in cui il destinatario dell’espressione offensiva partecipa alla chat o alla videochiamata nella quale viene proferita. Ci si è infatti chiesti, se in tal caso le condotte sono da ricondurre alla fattispecie penale della diffamazione oppure dell’ingiuria. L’elemento che permettere di differenziare le tue figure delittuose è la presenza o meno dell’offeso, e quindi la possibilità che lo stesso abbia di difendersi in tempo reale. È una differenza di non poco conto, considerato che il reato di ingiuria è stato depenalizzato nel 2016 (ciò peraltro non esclude che si possa pretendere in sede civile un risarcimento del danno per la lesione alla reputazione).

In questo ambito, la recente giurisprudenza distingue due diverse ipotesi.

La prima è quella, pressoché quotidiana, dell’utilizzo di messaggi scritti all’interno di chat (o “gruppi”) su Whatsapp (a cui bisogna ritenere equivalenti altri sistemi analoghi, per esempio Facebook).

Ebbene, la Cassazione con la sentenza n. 7904/2019 ha affermato che la presenza, o meglio la partecipazione, alla chat della persona a cui sono rivolte le espressioni offensive non è sufficiente per ricondurre la condotta all’ingiuria. Infatti, “sebbene il mezzo di trasmissione/comunicazione adoperato (‘e-mail’ o ‘internet’) consenta, in astratto, (anche) al soggetto vilipeso di percepire direttamente l’offesa, il fatto che messaggio sia diretto ad una cerchia di fruitori – i quali, peraltro, potrebbero venirne a conoscenza in tempi diversi -, fa sì che l’addebito lesivo si collochi in una dimensione ben più ampia di quella interpersonale tra offensore ed offeso”. Nel caso citato, la Suprema Corte ha quindi pronunciato sentenza di condanna per il reato di diffamazione.

La seconda ipotesi è quella delle cd. conference call, in occasione delle quali è simultaneamente collegato un numero determinato di persone che interloquiscono tra loro.

In tali contesti, i Giudici di legittimità hanno ritenuto che qualora le espressioni offensive sono pronunciate “dall’imputato mediante comunicazione telematica diretta alla persona offesa, ed alla presenza, altresì, di altre persone ‘invitate’ nella chat vocale” è corretto qualificare il fatto come ingiuria che, per quanto aggravata dalla presenza di più persone, è fattispecie depenalizzata (sent. 10905/2020). Dal testo della sentenza citata, sorretta da una motivazione, invero, piuttosto stringata, sembra che sia stato valorizzato anche il dato che alla “chat vocale” partecipava un limitato numero di persone (nella fattispecie era utilizzato il software Google Hangouts – che ammette un massimo di 15 partecipanti) e che si trattasse di una comunicazione orale.

Viene da chiedersi se la Cassazione sarebbe dello stesso avviso nel caso di una videoconferenza con un ampio numero di soggetti coinvolti (ad esempio il software Zoom consente fino a 100 utenti contemporaneamente).