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Invio di messaggi sessualmente espliciti e violenza sessuale

CASSAZIONE PENALE SEZ. III, 02/07/2020, N. 25266

In un periodo in cui il tema della libertà e delle violazioni della sfera sessuale è frequentemente oggetto di dibattiti e di controversie ideologiche, la Cassazione è stata chiamata a dirimere una vicenda avente ad oggetto la trasmissione di messaggi sessualmente espliciti a una minore, via WhatsApp, con minaccia di pubblicare la chat.

Il provvedimento in commento è stato pronunciato ad esito di ricorso del difensore dell’indagato contro il provvedimento di custodia cautelare del Tribunale del Riesame. Quella della Cassazione, pertanto, non è una sentenza definitiva che accerta la colpevolezza dell’accusato. È tuttavia interessante, anche per la ricostruzione dei precedenti giudiziari che richiama in motivazione, perché fornisce un importante quadro interpretativo utile anche per fattispecie analoghe.

Ad avviso del difensore dell’indagato, non era possibile ravvisare il reato di “violenza sessuale” (ex art. 609 bis c.p.). Del resto, la “condotta illecita si era limitata all’invio di una propria foto nuda, invitando la ragazza ad un commento, nonchè alla ricezione di una foto della ragazza senza reggiseno”, seppur sotto la minaccia di pubblicare la chat su internet. Non vi era, però, stato alcun “atto sessuale, seppur allo stadio del tentativo, non essendo avvenuto alcun incontro tra lui e la presunta persona offesa”, così come non vi era stata alcuna induzione a pratiche di autoerotismo o altre pratiche sessuali via chat, né alcuna proposta di incontro o di sesso via chat.

La Corte di Cassazione ha invece ritenuto “solida e ben motivata” la decisione del Tribunale del Riesame che affermava che “la violenza sessuale risultava pienamente integrata pur in assenza di contatto fisico con la vittima, quando gli atti sessuali coinvolgessero la corporeità sessuale della persona offesa e fossero finalizzati e idonei a compromettere il bene primario della libertà individuale nella prospettiva di soddisfare o eccitare il proprio istinto sessuale”.

Ha infatti ricordato che, in una situazione assimilabile, era stato qualificato come tentativo di violenza sessuale “il fatto di chi, minacciando – e poi attuando la minaccia – di inviare ai parenti di una donna foto compromettenti scattate in occasione di incontri amorosi con lei precedentemente avuti, tenti di costringerla ad ulteriori rapporti sessuali, non rilevando assenza di qualsivoglia approccio fisico” (Cass., Sez. 3, n. 8453 del 14/06/1994).

In un’altra occasione era stato considerato reato di “atti sessuali con minorenne” la condotta di colui che “richieda nel corso di una conversazione telefonica, di compiere atti sessuali, di filmarli e di inviarli immediatamente all’interlocutore, non distinguendosi tale fattispecie da quella del minore che compia atti sessuali durante una video-chiamata o una video-conversazione” (Cass., Sez. 3, n. 17509 del 30/10/2018).

L’unico aspetto sul quale i Giudici di legittimità non hanno preso una chiara posizione è se il fatto possa essere ritenuto un mero tentativo.

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Il danno da perdita di vita non è risarcibile

CASSAZIONE CIVILE SEZ. VI, 01/07/2020, N.13261

La Corte di Cassazione è tornata a ribadire un principio già espresso dalle Sezioni Unite nel 2015, in tema di danno da perdita di vita.

La triste vicenda processuale vedeva Tizio agire in giudizio per ottenere il risarcimento del danno sofferto a seguito del decesso del figlio a causa di un sinistro stradale.

Le richieste di Tizio erano accolte dal Tribunale adito. Veniva invece rigettata, sia in primo grado, sia in sede di appello, la pretesa relativa al danno che il figlio avrebbe subito (e che il padre lamentava quale suo erede) “per aver perso la vita”.

Il rigetto è stato confermato anche in grado di legittimità, con la sentenza in commento. La decisione, con motivazioni sintetiche ma rigorose, chiarisce infatti che, nel caso di morte immediata o che segua entro brevissimo lasso di tempo alle lesioni, “non è risarcibile nel nostro ordinamento il danno “da perdita della vita”, poichè non è sostenibile che un diritto sorga nello stesso momento in cui si estingua chi dovrebbe esserne titolare”.

È bene notare che la pronuncia in oggetto segue il solco tracciato dalle sezioni unite nel 2015 (sent. n. 15350) che, con una pronuncia ben più articolata, a loro volta avvaloravano un principio già espresso nel lontano 1925 (Cass. sez. un. 1925, n. 3475).

In altre parole, ricordando il filosofo Epicuro, che viene espressamente menzionato dalla corte, “il più temibile dei mali, la morte, non è nulla per noi, perchè quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte non ci siamo più noi”.

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Assenza di certificato di abitabilità: legittimo il rifiuto ad acquistare

CASS. CIV., SEZ. II, ORD., 5 AGOSTO 2022, N. 24317

In un recente intervento, la Cassazione si è espressa sui diritti del promittente acquirente di un immobile nel caso in cui il venditore non sia in grado di consegnare il certificato di abitabilità (o agibilità).

La mancata consegna o il mancato rilascio del certificato di abitabilità (o agibilità) di per sé non invalida il contratto preliminare, tuttavia “integra un inadempimento del venditore”, tale per cui il promittente acquirente può rifiutarsi di concludere l’atto di acquisto o pretendere un risarcimento per la ridotta commerciabilità del bene. Tutto ciò a meno che quest’ultimo non abbia espressamente rinunciato al requisito dell’abitabilità o comunque abbia esonerato il venditore dall’obbligo di ottenere la relativa licenza.

In particolare il rifiuto a “stipulare la compravendita definitiva di un immobile privo del certificato di abitabilità o di agibilità, pur se il mancato rilascio dipenda da inerzia del Comune nei cui confronti, peraltro, è obbligato ad attivarsi il promittente venditore – è giustificato, poiché il predetto certificato è essenziale, avendo l’acquirente interesse ad ottenere la proprietà di un immobile idoneo ad assolvere la funzione economico-sociale nonché a soddisfare i bisogni che inducono all’acquisto, cioè la fruibilità e la commerciabilità del bene”.

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Diffamazione: il danno all’immagine deve essere provato?

Cassazione civile sez. III, 18/02/2020, n. 4005

La diffamazione a mezzo stampa è un tema che viene frequentemente affrontato nelle aule giudiziarie, ove devono essere bilanciati il diritto alla cronaca o alla critica da una parte e il diritto all’onore e alla reputazione dall’altra.

L’aspetto sul quale ci vogliamo concentrate è quello del risarcimento del danno all’immagine, alla luce della recente pronuncia con cui la Cassazione ha ricordato i criteri applicabili in materia.

La Corte di legittimità, ribadendo un orientamento ormai consolidato, afferma che il danno all’immagine non discende automaticamente dal fatto illecito (non è “in re ipsa”), ma deve essere provato da chi ne invoca il risarcimento. La dimostrazione del danno può essere offerta anche mediante presunzioni, “assumendo a tal fine rilevanza, quali parametri di riferimento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima” (Cass. 4005/2020).

Nello specifico, la Corte era chiamata a giudicare il caso di un professionista ingiustamente indicato da un quotidiano locale, quale progettista di una lottizzazione sotto sequestro per via di gravi illeciti, chiarendo che è da considerarsi corretta la decisione che “dimostra di avere preso in considerazione la posizione personale e sociale del soggetto leso, in riferimento sia al profilo oggettivo della violazione commesso, in relazione alla gravità dell’accusa infondatamente mossa, che a quello soggettivo, relativo alla personalità del soggetto offeso e all’incidenza che la notizia falsa aveva presumibilmente avuto in riferimento al contesto sociale e professionale cui si riferiva, collegato a un territorio a forte vocazione turistica, quale è la costa ionica, ove i temi della deturpazione del territorio e della distruzione delle bellezze naturali urtano la sensibilità dell’opinione pubblica e, di riflesso, incidono sulla reputazione di chi in tale campo esercita la professione. Si tratta, quindi, di un giudizio in cui si è tenuto conto di tutte le circostanze allegate per valutare il danno morale derivato dall’illecito, con ragionamento inevitabilmente presuntivo, data la impalpabilità del danno reputazionale, desumibile non solo dal curriculum professionale della vittima della diffamazione, ma da altri rilevanti elementi, correlati al contesto territoriale e sociale il cui il professionista opera”.

Inoltre, le difficoltà degli operatori riguardano la liquidazione del danno all’immagine che, considerata la sua natura non patrimoniale, non è quantificabile economicamente in via immediata.

La valutazione dell’autorità giudiziaria, chiamata a dirimere il caso concreto, deve essere“necessariamente equitativa” (Cass. civile n.13153/2017). A tal fine, uno strumento di indubbia utilità è fornito dalle note Tabelle Milanesi, aggiornate al marzo 2018, che tra l’altro contengono i riferimenti orientativi per la quantificazione del danno patito a causa della diffamazione a mezzo stampa.

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Incidente a causa di attraversamento di animale: la responsabilità del gestore delle autostrade

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI CIVILE, 24/03/2022, n. 9610 –

Purtroppo non sono infrequenti i sinistri sui tratti autostradali causati dall’improvviso attraversamento di animali della carreggiata. Quando è possibile pretendere il risarcimento da parte della società che gestisce l’autostrada?

Ricordiamo che la fonte della responsabilità deriva dall’art. 2051 c.c., che pone a carico del custode, cioè di colui che ha il potere di vigilanza e controllo su una cosa, il risarcimento dei danni che da quella cosa derivino. Il custode può liberarsi da questo stringente onere solo provando che il danno sia derivato dal “caso fortuito”.

Recentemente la Cassazione ha affermato che nell’ipotesi di sinistro stradale determinato dalla repentina comparsa di un animale sulla carreggiata di un’autostrada, il custode per liberarsi dalla responsabilità (e quindi dagli obblighi risarcitori) “deve dare la prova positiva che la presenza dell’animale è stata determinata da un fatto imprevedibile ed inevitabile”.

Con particolare riferimento alla presenza di animali sulla sede stradale, la Corte ha indicato quali esempi di imprevedibilitàla caduta da mezzo in transito o l’abbandono in area di sosta o l’apertura improvvisa di un varco della recinzione”, affermando al contrario che nel caso di specie “l’ingresso di animali dal vicino svincolo autostradale (anch’esso facente parte del bene in custodia) costituisce elemento di intrinseca pericolosità ed al contempo esclude che l’ingresso di animali poi presuntivamente verificatosi possa considerarsi evento imprevedibile ed inevitabile idoneo ad integrare caso fortuito” (Cass. civile sez. VI, 24/03/2022, n. 9610).

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Anche i famigliari non conviventi hanno diritto al risarcimento dei danni per morte del congiunto

CASSAZIONE CIVILE, ORDINANZA N. 8218 DEL 24.03.2022 –

La morte di una persona, se causata da condotta illecita di altro soggetto (per sinistro stradale, imperizia medica, mancato rispetto delle norme antinfortunistiche nei rapporti di lavoro, danno da cose in custodia e comunque per qualsiasi evento riconducibile a responsabilità di terzi) causa un danno ai familiari che può essere sia materiale (si pensi alla perdita di un genitore che sostiene economicamente la famiglia) che non patrimoniale.

Entrambi i danni debbono essere risarciti a coloro che hanno un vincolo affettivo ampio e profondo con la vittima.

A prescindere dalla problematica dell’entità del risarcimento, non oggetto del presente breve scritto ma che comunque dipende anch’esso dal rapporto affettivo con la vittima, la giurisprudenza si è trovata frequentemente a prendere posizione su quali siano i soggetti che hanno diritto a tale risarcimento, al di fuori dell’ovvia stretta cerchia dei figli, dei genitori, del coniuge comunque degli appartenenti al “nucleo familiare ristretto”.

L’ampiezza e profondità del vincolo affettiva, senza necessità di darne dimostrazione, si danno infatti per certi tra persone unite da vincoli parentali e da convivenza.

Spesso la giurisprudenza ha utilizzato il solo criterio della convivenza, escludendo perciò dal diritto al risarcimento tutti i familiari che non fossero conviventi con la vittima.

Con la decisione 8218 / 2021 pubblicata lo scorso 24 marzo, La Cassazione ha statuito che si deve escludere che la convivenza sia requisito indispensabile per riconoscere il diritto al risarcimento del danno da perdita parentale. Mentre va indagata l’effettiva ampiezza e profondità del vincolo parentale che ben potrebbe esistere anche in assenza di convivenza. Va sempre accordata, invece, la possibilità di provare in concreto l’esistenza di rapporti costanti e caratterizzati da reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto.

Nel caso di specie i soggetti che richiedevano il risarcimento affermavano di avere subito danno non patrimoniale dalla morte della zia – vittima di un incidente stradale – con la quale, seppure non con essi conviventi avevano rapporti costanti e caratterizzati da reciproco affetto e solidarietà.

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Offese in chat: diffamazione o ingiuria?

Cassazione penale sez. V, sentenze 25/02/2020, n. 10905 e 20/02/2019, n. 7904

La diffusione dell’utilizzo di software di messaggistica istantanea o di Voip (ossia i programmi che permettono di effettuare telefonate o videochiamate tramite connessione internet), ha portato a un incremento di pronunce della giustizia sul un tema delle offese recate con tali mezzi.

L’ambito di questo scritto è circoscritto ai casi in cui il destinatario dell’espressione offensiva partecipa alla chat o alla videochiamata nella quale viene proferita. Ci si è infatti chiesti, se in tal caso le condotte sono da ricondurre alla fattispecie penale della diffamazione oppure dell’ingiuria. L’elemento che permettere di differenziare le tue figure delittuose è la presenza o meno dell’offeso, e quindi la possibilità che lo stesso abbia di difendersi in tempo reale. È una differenza di non poco conto, considerato che il reato di ingiuria è stato depenalizzato nel 2016 (ciò peraltro non esclude che si possa pretendere in sede civile un risarcimento del danno per la lesione alla reputazione).

In questo ambito, la recente giurisprudenza distingue due diverse ipotesi.

La prima è quella, pressoché quotidiana, dell’utilizzo di messaggi scritti all’interno di chat (o “gruppi”) su Whatsapp (a cui bisogna ritenere equivalenti altri sistemi analoghi, per esempio Facebook).

Ebbene, la Cassazione con la sentenza n. 7904/2019 ha affermato che la presenza, o meglio la partecipazione, alla chat della persona a cui sono rivolte le espressioni offensive non è sufficiente per ricondurre la condotta all’ingiuria. Infatti, “sebbene il mezzo di trasmissione/comunicazione adoperato (‘e-mail’ o ‘internet’) consenta, in astratto, (anche) al soggetto vilipeso di percepire direttamente l’offesa, il fatto che messaggio sia diretto ad una cerchia di fruitori – i quali, peraltro, potrebbero venirne a conoscenza in tempi diversi -, fa sì che l’addebito lesivo si collochi in una dimensione ben più ampia di quella interpersonale tra offensore ed offeso”. Nel caso citato, la Suprema Corte ha quindi pronunciato sentenza di condanna per il reato di diffamazione.

La seconda ipotesi è quella delle cd. conference call, in occasione delle quali è simultaneamente collegato un numero determinato di persone che interloquiscono tra loro.

In tali contesti, i Giudici di legittimità hanno ritenuto che qualora le espressioni offensive sono pronunciate “dall’imputato mediante comunicazione telematica diretta alla persona offesa, ed alla presenza, altresì, di altre persone ‘invitate’ nella chat vocale” è corretto qualificare il fatto come ingiuria che, per quanto aggravata dalla presenza di più persone, è fattispecie depenalizzata (sent. 10905/2020). Dal testo della sentenza citata, sorretta da una motivazione, invero, piuttosto stringata, sembra che sia stato valorizzato anche il dato che alla “chat vocale” partecipava un limitato numero di persone (nella fattispecie era utilizzato il software Google Hangouts – che ammette un massimo di 15 partecipanti) e che si trattasse di una comunicazione orale.

Viene da chiedersi se la Cassazione sarebbe dello stesso avviso nel caso di una videoconferenza con un ampio numero di soggetti coinvolti (ad esempio il software Zoom consente fino a 100 utenti contemporaneamente).

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Sinistro stradale: il danno da fermo tecnico

Nel presente articolo si intende fornire una breve rassegna delle più recenti pronunce di merito in relazione al dibattuto tema del cd. fermo tecnico del veicolo in caso di sinistro stradale.

Innanzitutto, si ricorda che è ormai pacifico in giurisprudenza che l’indisponibilità di un autoveicolo durante il tempo necessario per le riparazioni (c.d. fermo tecnico) è un danno che non può considerarsi sussistente in re ipsa, per il solo fatto che il mezzo sia stato inutilizzato dal proprietario per un certo lasso di tempo, ma – come ogni danno – deve essere provato (Cass. Civ. n. 20620/2015).

Partendo da questo assunto, il Tribunale di Milano ha precisato che il danno da fermo tecnico potrebbe consistere “ad esempio nella spesa per un mezzo sostitutivo ovvero nella rinuncia forzata a proventi ricavabili dall’uso del mezzo”. Nel caso di specie, era negato il risarcimento del danno in quanto la parte aveva solo “ipotizzato la necessità di un’auto sostitutiva da noleggiare ad Alessandria ma nessuna spesa effettiva ha documentato a riguardo” (Tribunale Milano sez. X, 22/01/2021, n. 429).

È stato anche affermato che “il giudice può procedere a liquidare equitativamente il danno solo quanto questo è destinato a rimanere incerto nella sua determinazione (Cass. n. 11698/2018) e non anche quando l’attore, pur potendolo fare, non ha provato l’an e il quantum della propria pretesa”. Nel giudizio, le domande attoree erano respinte in quanto non era stata prodotta in giudizio la fattura, o comunque la documentazione, attestante la spesa sostenuta per dotarsi di un mezzo sostitutivo (Tribunale Pisa sez. I, 06/07/2021, n. 912).

Altro spunto interessante della stessa pronuncia è il seguente: “ogni analisi circa l’imprescindibile necessità di dotatasi di un mezzo sostitutivo deve essere preclusa, non essendo affatto necessaria. Tant’è’ vero che la giurisprudenza esclude la risarcibilità del danno da cd. Fermo tecnico in ipotesi diverse, in ragione del fatto, ad esempio, che il mezzo incidentato inutilizzabile fosse sprovvisto di assicurazione obbligatoria e dunque non poteva circolare”.

La giurisprudenza ha ritenuto che neppure il “deprezzamento del veicolo” possa essere considerato un pregiudizio automatico in caso di fermo tecnico. “In primo luogo, infatti, il deprezzamento è causato dalla necessità della riparazione, non dalla durata di questa. In secondo luogo, il deprezzamento d’un veicolo non è una conseguenza necessaria del fermo tecnico, ma un danno eventuale e da accertare caso per caso. Così, ad esempio, la riparazione d’un veicolo obsoleto e malandato potrebbe addirittura fargli acquistare un valore superiore a quello che aveva prima del sinistro” (Tribunale Ivrea sez. I, 07/09/2021, n. 833).

Da ultimo si osserva che, mentre sembra che non vi siano pronunce ostative in relazione al risarcimento dei costi relativi agli oneri per la tassa di circolazione, recentemente il Tribunale di Milano ha così deliberato: “è considerata erronea l’affermazione secondo cui la sosta forzosa del veicolo comporta necessariamente un danno pari al premio assicurativo “inutilmente pagato” posto che durante il periodo della riparazione il proprietario potrebbe chiedere all’assicuratore la sospensione dell’efficacia della polizza sicché, ove non si avvalga di questa semplice precauzione, il pagamento del premio non potrebbe costituire un danno risarcibile perché dovuto a negligenza del danneggiato (Tribunale Milano sez. VI, 27/10/2021, n. 8731).

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La comproprietà: utilizzo esclusivo e i suoi effetti

CASSAZIONE CIVILE, SEZIONE 2, ORDINANZA N. 39036 DEL 09/12/2021

La comproprietà di un bene – e in particolare di un bene immobile che è l’ipotesi certamente più ricorrente – fa sorgere nei non addetti ai lavori non poche domande e perplessità sul diritto al suo utilizzo e alla legittimità di un uso esclusivo da parte di uno solo dei comproprietari.

Il presente scritto è certamente più rivolto a chi si trova ad essere comproprietario di un bene con altri e si chiede quale uso ne possa fare e quale uso sia invece vietato a ogni singolo comproprietario, che non agli operatori del diritto che ben ne conoscono le norme regolatrici, che possono apparire apparentemente contradditorie per gli utenti.

Le ipotesi più ricorrenti di comunione (comproprietà), semplificando non volontaria, e che proprio per questo aspetto possono creare maggiori dubbi e quesiti ai soggetti che vi si trovano coinvolti, sono quelle tra coeredi e quelle negli edifici condominiali, distinte peraltro da una netta e significativa differenza.

La prima non comporta alcun obbligo di rimanere in comunione con la possibilità, in qualsiasi momento e da parte di ciascuno dei comproprietari, di chiedere la divisione con l’effetto, ove possibile, di attribuzione di singole autonome proprietà e, sempre, di scioglierla. Nel caso del condominio, invece, lo scioglimento può avvenire solo in circostanze particolari.

L’uso dei beni comuni è regolato in generale dall’art. 1102 del codice civile, il quale prevede che ciascun comproprietario può servirsi della cosa comune, purchè non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri comproprietari di farne parimenti uso secondo il loro diritto.

Si tratta pertanto di due differenti condizioni di cui la seconda è quella che in questo caso ci interessa.

Ora è evidente quale sia il nodo da sciogliere: qual è il limite tra il lecito servirsi della cosa comune da parte di uno solo dei comproprietari e contemporaneamente la possibilità del pari uso da parte degli altri comproprietari?

Il pari uso non va inteso nel senso di uso identico e contemporaneo il che, essendo logisticamente impossibile, di fatto comporterebbe nei fatti il divieto, per ciascun comproprietario, di fare qualsiasi uso particolare a proprio vantaggio della cosa comune (Tribunale di Arezzo, 04/10/2021, n. 800).

L’uso paritario deve invece intendersi come diritto di ciascun partecipante alla comunione della facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione, a condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri, essendo i rapporti condominiali informati al principio di solidarietà, che richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione (in tema condominiale Tribunale Modena sez. I 06/05/2021 n. 752).

La giurisprudenza ha inoltre chiarito che l’uso esclusivo del bene in comunione, da parte di uno dei comproprietari, non provoca alcun pregiudizio in danno degli altri, quando questi siano rimasti inerti o abbiano acconsentito all’uso esclusivo in modo certo ed inequivoco (tra le tante da ultimo Tribunale Pavia sez. III 05/10/2021 n. 1262; Tribunale La Spezia sez. I 08/06/2021 n. 345; Tribunale Bergamo sez. IV 25/03/2021 n. 504; Tribunale Palermo sez. II 15/03/2021, n.1067).

Invece la conseguenza in caso di uso esclusivo del bene in comunione contro la volontà espressa degli altri comproprietari, è che l’occupante sarà tenuto al pagamento della corrispondente quota di frutti civili ricavabili dal godimento indiretto della cosa solo se gli altri partecipanti abbiano manifestato l’intenzione di utilizzare il bene in maniera diretta e non gli sia stato concesso (Cass. Civ., Sez. 2,  n. 7019 del 12/03/2019; Cass. Civ., Sez. 2, n. 2423 del 09/02/2015).

Relativamente agli immobili, i frutti civili si identificano con un canone locativo di mercato (principio confermato dall’ordinanza che ha dato spunto al presente scritto e più volte dichiarato dalla Cassazione tra le ultime Cass. Civ., Sez. 2, ordinanza n. 17876 del 03/07/2019 e Cass. Civ. Sez. 2, Sentenza n. 5504 del 05/04/2012).

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Guida ebbrezza alcolica avvisi esami del sangue

Guida in stato di ebbrezza: obbligo degli avvisi in caso di prelievo del sangue per la verifica del tasso alcolemico – Cassazione penale sez. IV, 08/11/2019, sent. 10/12/2019, n.49898

L’art. 186, D.Lgs 285/1992 (il cd. Codice della Strada), disciplina gli illeciti amministrativo (co. 2, Lett. a.) e penali (co. 2, Lett. b. e c.) commessi dai conducenti che si mettono alla guida di un veicolo in stato di ebbrezza alcolica.

In considerazione delle concrete modalità con cui tali condotte vengono riscontrate e contestate, uno dei temi che più ha interessato la giurisprudenza è quello legato all’accertamento delle condizioni psico-fisiche del conducente, quando questo avvenga mediante l’analisi di campioni biologici.

Il caso tipico è quello del sinistro stradale, a seguito del quale il conducente viene trasportato o si reca presso la più vicina struttura sanitaria per sottoporsi gli accertamenti clinici più opportuni. In tali occasioni, capita di frequente che gli organi di polizia richiedano allo stesso presidio ospedaliero, che sta prestando le cure del caso, di procedere alla verifica del livello alcolico nel sangue del paziente/conducente, mediante esami strumentali (prelievi ematici).

Quali che siano gli esiti di tali verifiche, non sempre gli accertamenti possono essere utilizzati ai fini processuali. La Cassazione, infatti, anche di recente, ha ribadito che “sussiste l’obbligo di previo avviso al conducente coinvolto in un incidente stradale di farsi assistere da un difensore di fiducia, ai sensi dell’art. 356 c.p.p. e art. 114 disp. att. c.p.p., in relazione al prelievo ematico presso una struttura sanitaria finalizzato all’accertamento del tasso alcolemico, qualora l’esecuzione di tale prelievo non avvenga nell’ambito degli ordinari protocolli sanitari, ma sia autonomamente richiesta dalla polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 186 C.d.S., comma 5” (Cassazione penale sez. IV, 08/11/2019, sent. n. 49898/2019).